Un anno di tensione e di colpi di scena ha trovato la sintesi nella notte tra il 5 e il 6 settembre. L’ipotesi di accordo siglato con AM InvestCO accoglie le richieste avanzate dalla Uilm, salvi ambiente e occupazione.
Quando diciamo Ilva diciamo molte cose: parliamo di industria siderurgica, di un pezzo di storia del nostro Paese che negli anni si è declinata tra picchi di produzione e inchieste giudiziarie, di migliaia di lavoratori che per molto tempo hanno vissuto nell’incertezza, di territori che hanno aspettato per anni risposte dalla politica, di battaglie sociali e sindacali. Quando diciamo Ilva parliamo inevitabilmente anche della “vertenza del secolo”. Sono cambiati i governi, gli umori e anche le speranze che, nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2018, hanno finalmente trovato una sintesi. L’“Ipotesi di accordo” firmata al Ministero dello Sviluppo Economico tra le Organizzazioni Sindacali, le società di Ilva in A.S. e AM InvestCo – grazie anche al supporto del ministro Luigi Di Maio – è stato un segnale chiaro ed inequivocabile: Ilva continuerà a produrre acciaio, ma lo farà salvaguardando soprattutto l’ambiente e la piena occupazione. Un risultato a cui la Uilm e il Segretario generale Rocco Palombella hanno dato un contributo essenziale e, senza farne un vanto, ne sono stati protagonisti.
UN ANNO FA
Per arrivare a quella che è già conosciuta come “la notte dell’Ilva” ci sono voluti diversi mesi di trattativa. Riassumere qui tutta la vicenda che ha coinvolto gli stabilimenti, da Taranto a Genova, è pressoché impossibile, ma val la pena raccontare quello che è accaduto nell’ultimo anno, a partire dal 5 giugno 2017. Una data che in qualche modo ha riacceso le speranze e che ha segnato il passaggio del Gruppo Ilva ad Am InvestCo Italy, la cordata messa in piedi dal colosso anglo-indiano ArcelorMittal.
La società acquirente, designata dopo la gara che recentemente il ministro Di Maio aveva definito “il delitto perfetto”, ha stanziato investimenti per circa 1,3 miliardi di euro a sostegno del piano industriale focalizzati soprattutto sugli altiforni, le acciaierie e le linee di finitura; circa 1,1 miliardi di euro sono invece gli investimenti ambientali che garantiranno a Ilva la conformità con l’Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia) e che porteranno a un progressivo miglioramento in misura significativa delle performance ambientali.
Il piano industriale (2018-2024), che ci è stato illustrato per la prima volta il 20 luglio 2017, prevede in una prima fase una produzione di acciaio grezzo limitata a 6 milioni di tonnellate annue con Afo 1-2 e 4 ed il rimanente fabbisogno di bramme e laminati con prodotti provenienti da altri stabilimenti AM; alla realizzazione del piano ambientale (2023) è prevista la riattivazione di Afo 5, per raggiungere una produzione di 8 milioni di tonnellate di acciaio liquido a Taranto, e un successivo innalzamento dei livelli produttivi fino a 9,5 milioni di tonnellate di acciaio finito con l’importazione di bramme e laminati piani a caldo. Fin qui nulla da ridire, il piano lo abbiamo ritenuto anche molto ambizioso, il problema era sui numeri legati all’occupazione: ovvero 10mila addetti per 9,5 milioni di tonnellate (invece degli attuali 14mila).
PARTENZA IN SALITA
Ecco perché la trattativa è stata da subito in salita: abbiamo espresso le nostre perplessità evidenziando una contraddizione fra il decremento dell’attuale forza lavoro e l’incremento della produzione. Così la nostra prima azione è stata quella di chiedere subito un incontro di dettaglio, stabilimento per stabilimento, per poter effettuare una valutazione più compiuta sulla proposta di Mittal. Questi incontri in verità non si sono mai tenuti, proprio per l’incapacità dell’azienda di dimostrare la necessità di generare esuberi. Tant’è che l’incontro successivo al 20 luglio – che avrebbe dovuto tenersi il 13 settembre – venne rimandato al 9 ottobre, non senza polemiche.
COLPI DI SCENA
La trattativa ha vissuto poi diversi colpi di scena. Il 30 settembre 2017, la Commissione Antitrust europea ha approvato in via preliminare l’acquisizione di Ilva. Il 6 ottobre quindi, AM InvestCo ed i Commissari Straordinari hanno inviato la comunicazione art. 47 ai ministeri interessati e alle organizzazioni sindacali per il trasferimento di Ilva in AM. Nella comunicazione si rimarcavano le condizioni per l’assunzione dei lavoratori: il passaggio di soli 10mila addetti (determinando, di fatto, i 4mila esuberi), senza il mantenimento dei livelli retributivi, di inquadramento e di anzianità. Ovviamente noi respingemmo fortemente questa impostazione e dichiarammo lo sciopero in tutti gli stabilimenti Ilva, l’adesione dei lavoratori fu altissima.
ArcelorMittal è un colosso che produce 90 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno, con una presenza in 60 Paesi del mondo e 209mila addetti. Insomma, parliamo di un Gruppo che ha tutta la possibilità di rilanciare il settore siderurgico in Italia. Per questo siamo sempre stati convinti che all’aumento della produzione dovesse corrispondere anche l’aumento del numero di lavoratori e che nessun gruppo industriale, nemmeno quello tra i più grandi al mondo nel settore siderurgico, possa ipotizzare di gestire nel nostro Paese dei grandi stabilimenti produttivi senza l’accordo con il sindacato. Noi comunque abbiamo sempre tenuto la barra dritta, del resto era in gioco il destino di un settore determinante per la crescita della ricchezza italiana. La crisi dell’Ilva è costata alla nostra economia ben 15 miliardi e 800 milioni di euro, a causa della minore produzione dell’impianto di Taranto. Si tratta di circa 16 miliardi di euro di Pil persi tra il 2013 e il 2017.
Come se tutto questo non bastasse, prima di Natale il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, hanno presentato ricorso al Tar di Lecce chiedendo la sospensiva del decreto della Presidenza del Consiglio del 29 settembre 2017 inerente in particolare al piano ambientale di Mittal. Da lì il bliz di Calenda a Taranto e l’ulteriore, dannosa, perdita di tempo.
I TEMPI SI DILATANO
Nonostante la gara a ostacoli noi abbiamo premuto affinché gli incontri al Mise proseguissero al fine di raggiungere presto un’intesa sindacale. Tuttavia la campagna elettorale, l’esito del voto politico, l’attesa di un nuovo esecutivo, non hanno fatto altro che rallentare il percorso che a fatica stavamo cercando di seguire. Nel frattempo alcuni nodi hanno cominciato a venire al pettine: il Tar di Lecce ha passato la palla al Tar del Lazio, Melucci ed Emiliano hanno depositato la rinuncia alla richiesta di sospensiva al TAR ed è arrivato, dopo diversi rinvii, il pronunciamento dell’Antitrust. Bruxelles ha chiesto l’uscita di Marcegaglia dalla compagine di AM InvestCo e la cessione da parte di Mittal dell’impianto ex Magona di Piombino.
Una data da ricordare è poi quella del 10 maggio, giorno dell’out out di Calenda, del “prendere o lasciare”. L’ex ministro mise sul tavolo una proposta che prevedeva l’assunzione di 10mila dipendenti alla nuova società guidata da Arcelor Mittal. Poi, la costituzione di una società mista Invitalia-Ilva, che avrebbe assorbito circa 1.500 unità per attività esternalizzate. Circa 2.300 lavoratori sarebbero rimasti in capo alla società in amministrazione straordinaria, a cui venivano concessi fondi per incentivi all’esodo e ammortizzatori per 5 anni. Anche se il destino di questi ultimi non era ben specificato. “Con rammarico prendiamo atto del fatto che le nostre richieste siano rimaste inascoltate – ha dichiarato allora Rocco Palombella – Il testo che ci è stato proposto non è rappresentativo del nostro negoziato. È sbagliata la scelta di una società mista con Invitalia, alla luce dell’esperienza di Cornigliano. Se i punti inseriti nel documento non sono negoziabili, per quanto ci riguarda non ci sono le condizioni per un accordo”.
Nonostante i continui contatti con l’azienda, per riprendere in via ufficiale in negoziato abbiamo dovuto aspettare il nuovo governo “giallo-verde”, quando a Carlo Calenda è subentrato il giovane Luigi Di Maio. Noi non ci siamo mai fermati e in occasione del congresso della Uil, che si è svolto a Roma a fine giugno, abbiamo consegnato proprio al vicepremier un elmetto rosso dell’Ilva. Lo ha fatto il nostro Segretario generale, Rocco Palombella, intimandogli di “far presto” per dare risposte alle “migliaia di cittadini e lavoratori che vivono da tempo col fiato sospeso”. L’attività produttiva nello stabilimento procedeva infatti con grandi difficoltà, in particolare in termini di cassa della gestione commissariale e delle attività di manutenzione.
UN’ESTATE DA DIMENTICARE
A partire da quel momento la situazione è sembrata precipitare nell’incertezza più totale. La sera del 24 luglio il ministro dello Sviluppo Economico ha fatto sapere che avrebbe avviato un procedimento amministrativo per decidere l’eventuale annullamento di aggiudicazione della gara per l’acciaieria di Taranto. La decisione è stata presa dopo una serie di prime verifiche interne e una lettera dell’Anac, l’Autorità Nazionale Anti Corruzione, in cui si rilevavano alcune criticità nella procedura di gara. Di Maio ha reso noto che il procedimento amministrativo, disciplinato per legge, sarebbe durato trenta giorni: “Un atto dovuto per accertare i fatti a seguito di importanti criticità emerse”. Nel frattempo lo stesso ministro ha incitato noi sindacati a continuare la trattativa sul fronte occupazionale. Una situazione davvero paradossale: continuare a parlare con un’azienda la cui gara poteva essere annullata. Su tutto, inoltre, ha sempre aleggiato lo spettro della chiusura dell’Ilva, quella che un fronte grillino più estremista ha sempre auspicato. Ci siamo ribellati a tutto questo in varie occasioni, abbiamo continuato a chiedere chiarezza lavorando per tutta l’estate senza riuscire a venirne a capo. Il 23 agosto Di Maio in una conferenza stampa dal Mise aveva parlato di “delitto perfetto” e di “eccesso di potere”, ma aveva anche detto che sebbene ci fossero delle illegittimità, la gara non si sarebbe potuta annullare senza le condizioni di “interesse nazionale” e queste condizioni si fondavano su due pilastri: ambiente e occupazione.
IL 5 SETTEMBRE
Se sul fronte ambientale, anche grazie al supporto del Ministero dell’Ambiente Costa, l’atmosfera si è fatta subito più distesa, sul fronte occupazionale la partita si è giocata tutta nella notte tra il 5 e il 6 settembre. Un anno intero di discussioni, telefonate, incontri informali, sospiri e imprecazioni ha trovato la sua sintesi in una sola notte. Dopo un’estenuante trattativa presso il Ministero dello Sviluppo Economico, infatti, siamo arrivati stremati a un’intesa senza esuberi. “L’ipotesi di accordo, sottoposta al giudizio dei lavoratori, contiene infatti al suo interno le proposte che noi abbiamo avanzato più volte in questi mesi”, ricorda Rocco Palombella. Tra cui: l’organico di partenza con 10.700 lavoratori (dopo una prima proposta dell’azienda a 10.100 subito e 300 entro il 2021), il mantenimento dei livelli salariali, normativi e di contratto (no jobs act e garanzia dell’articolo 18), e last but not least la garanzia di assunzione a fine piano industriale da parte di AM per tutti i lavoratori che non avranno usufruito degli incentivi (per i quali il governo ha confermato i 250 milioni di euro). Tutto questo si aggiunge a un piano ambientale migliorato che, a seguito delle nostre continue richieste, potrà finalmente partire in modo organico e continuo. Lo ha spiegato lo stesso Di Maio nella plenaria del 6 settembre alle 9 del mattino: “È stato ottenuto che l’aumento della produzione di acciaio oltre sei milioni di tonnellate annue sia condizionato alla dimostrazione da parte dell’azienda – documentata al Ministero dell’Ambiente – che le emissioni complessive di polveri dell’impianto non superino i livelli collegati alla produzione a 6 milioni. In conformità ai limiti che pone l’ARPA Puglia. Un altro miglioramento – ha continuato – riguarda il problema della diffusione delle polveri: rispetto alla scadenza iniziale del 2021, è stato ottenuto l’anticipo della copertura dei parchi minerari entro il 2019. Per la prima volta sono stati fissati anche i tempi intermedi per la copertura dei parchi: entro aprile 2019 l’azienda sarà obbligata a coprire il 50% della zona del parco più vicino al quartiere Tamburi”.
“Grazie al nostro impegno e alla nostra determinazione siamo riusciti a salvaguardare l’ambiente e i livelli occupazionali”, ha aggiunto Palombella. “Questo è quello che abbiamo sempre cercato, quello per cui abbiamo lottato nonostante tutto. Siamo esausti ma soddisfatti, perché abbiamo salvaguardato un settore strategico per l’Italia e un grande Gruppo industriale. Da oggi si apre un capitolo nuovo di cui inevitabilmente e orgogliosamente continueremo a far parte”. Un giudizio che gli stessi lavoratori hanno condiviso recandosi in massa alle urne per esprimere il proprio consenso (il 93% di loro ha detto ‘sì’ all’accordo), sottoponendosi in qualche occasione anche a lunghe file. “Il sacrificio di questi anni non deve essere vano – conclude Palombella – anzi, sono convinto che questo cambio di vertice servirà anche a rilanciare e finalmente valorizzare il nostro patrimonio umano imprenditoriale e professionale”.