Perché l’Italia non deve uscire dallo spazio

di Enrico Ferrone

L’Italia è nelle attività spaziali da oltre mezzo secolo. La sua prima manifattura industriale fu SIRIO, un progetto sperimentale realizzato da un consorzio tra le principali aziende che si stavano implementando in parallelo al San Marco, un programma nato con fini completamente diversi e con una struttura preminentemente scientifica, tant’è che ogni sua parte è stata realizzata e assemblata all’interno di laboratori universitari. Oggi il comparto spaziale italiano fattura poco meno di due miliardi di euro all’anno (riferimento 2017), con circa 250 imprese che danno lavoro a 6.300 persone. Non sono cifre blasonate, specie se si misurano con i 383,5 miliardi di dollari che le attività extra-atmosferiche muovono a livello globale, ma la materia trova valorizzazione per le conoscenze conseguite e per il posizionamento strettamente strategico che occupa. Se poi è vero che il suo valore triplicherà entro 20 anni, il business potrebbe essere di interesse sicuro.

LA COMPOSIZIONE DEL COMPARTO
Il settore spaziale non è un’isola monolitica. Durante il periodo della Guerra Fredda si è data molta enfasi alle spedizioni umane, che hanno visto il loro culmine con lo sbarco di equipaggi americani sulla Luna, dal 1969 al 1972. Un frammento che resta ancora unico nella storia delle esplorazioni celesti e che ha rappresentato un’esibizione di tecnologia e capacità sistemistica in un momento storico in cui un confronto militare avrebbe avuto conseguenze devastanti per l’intera popolazione del pianeta. Se le sue applicazioni possono talvolta sovrapporsi, così come le tecnologie abilitanti che ne configurano il grande mosaico, i segmenti di telecomunicazioni, geoposizionamento, osservazione della Terra e scienza, assieme alle spedizioni umane possono considerarsi gli snodi attorno a cui gravita l’intero sistema, che viene completato dagli apparati di lancio e dalle utenze che derivano dai servizi prodotti. Un complesso che nel suo insieme compone la filiera, detenuta al momento da circa cinquanta nazioni del mondo, sia pur in maniera assolutamente eterogenea e non commensurabile ma che non ha mai risentito risolutivamente del susseguirsi di crisi economiche, per le sue caratteristiche specifiche che lo rendono un perimetro strategico su cui spingono le priorità nazionali, la ricerca e il finanziamento allo sviluppo e ha sempre tenuto il passo senza mostrare preoccupanti segnali di resa.

QUANTO RENDE LO SPAZIO
Stando a quanto rilasciato dagli organi a cui ne compete la gestione politica in Italia, ogni euro investito nelle attività spaziali ne produce 11 di ritorno economico sul territorio. La cifra non appare del tutto veritiera: se così fosse, farebbe domandare cosa aspetta l’Italia a impegnare una somma ben più consistente dei 500 milioni che pone ogni anno per tener vive tutte le attività. In realtà alcuni capitoli impongono un’analisi più puntuale e considerazioni più attente. Per cominciare il valore dell’efficienza del sistema Italia, la capacità di penetrazione nei mercati internazionali e il modo controverso di fare sistema lasciano supporre che il fattore di moltiplicazione conti elementi meno attraenti. In questi, la manifattura si allinea con parametri inferiori per la sua necessità di dover effettuare continui investimenti destinati al miglioramento della tecnologia. Il cliente istituzionale – il riferimento di maggior peso in tutte le nazioni – è sempre più esigente e attento sia ai prezzi che alla qualità dei prodotti acquisiti e da qui si comprende la pretesa che il fornitore abbia i propri know-how sempre allo stato dell’arte. Su questi conteggi, se il rapporto di moltiplicazione dovesse pur essere 1:3, la gestione del segnale e l’utilizzazione di quanto lanciato nello spazio mostrano un indubbio vantaggio per i servizi di terra. Va però sottolineato che quest’ultimo segmento è delineato da un’economia che include attività commerciali nate dalle missioni di ricerca e sviluppo, parti delle quali sono già piuttosto mature e includono prodotti e servizi di tecnologia accessibili alla stragrande maggioranza degli utenti. Al momento una stima piuttosto affidabile conta in circa 170 i Paesi che si sono dotati di una propria agenzia spaziale. Non tutte ovviamente hanno lo stesso peso ma ciascuna può rappresentare una minaccia sia sul piano strategico, che industriale e commerciale se non si sostiene la ricerca manifatturiera in modo da generare sistemi e apparati che possano marcare il vantaggio competitivo.

LA NUBE SUL PIANETA ITALIA
Nel corso degli ultimi decenni l’Italia ha fatto astrusamente in modo che le industrie di maggior pregio si allontanassero dai suoi territori: il chimico, il petrolifero, l’aeronautica, l’elettronica di consumo non sono che esempi di un lungo viatico che non si vorrebbe elencare ma che insiste sulla sorte di un’economia maltrattata e di una classe di lavoratori di alta formazione che è stata cancellata. Oggi molti dei talenti formati dalle università italiane scelgono offerte di lavoro all’estero perché il suolo nazionale non sostiene proposte attrattive. Sono molti i giovani che vanno via e che non vedranno – allo stato delle cose – le condizioni per rientrare. Il fenomeno è stato definito un investimento a perdere che sta dissanguando il Paese. Le tecnologie spaziali, e più di tutto le sue manifatture, rappresentano uno dei segnali più preoccupanti dell’esodo senza ritorno. Una frammentazione sproporzionata di imprese senza massa critica in concorrenza tra loro, un palese disinteresse per il riesame di alleanze che tendono irreversibilmente ad azzoppare il made in Italy e l’assoluta disinformazione di troppi stakeholder stanno portando la nostra tradizione industriale ad un ennesimo punto di non ritorno. La scarsa consapevolezza nella valorizzazione del concetto di grande azienda riduce lo scrigno dei valori industriali e annulla una raccolta di competenze senza le quali qualunque grande programma spaziale non può avere alcun destino futuro.

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