Crisi del diesel: oltre mille lavoratori a rischio

Oltre mille lavoratori a rischio a causa della crisi del diesel, dopo i test irregolari sulle emissioni e la messa al bando di tutti i motori a combustione dal 2024 nell’area dell’Unione europea.

In particolare parliamo dei 624 lavoratori dello stabilimento di Bari Bosch e gli oltre 450 degli stabilimenti di La Loggia e Saluzzo della Malhe. Negli incontri del 28 novembre presso il Ministero dello sviluppo economico, è andato in onda un dramma che potrebbe avere ripercussioni gravissime e senza nessuna reale e concreta prospettiva produttiva futura.

BOSCH
Il gruppo tedesco Bosch ha circa 410mila dipendenti nel mondo e nel 2018 ha fatturato oltre 78 miliardi di euro come fornitore di tecnologie e servizi a vari settori della manifattura, in particolare quello dell’automotive. In Italia impiega 6.014 addetti in 19 impianti e quattro centri di ricerca per un giro di affari complessivo di 2,5 miliardi di euro.

 Nel capoluogo pugliese sono impiegati 1.805 dipendenti che producono pompe per il sistema common rail per i motori a gasolio. Nel 2017, ai primi segnali di crisi del diesel, fu firmato un accordo tra organizzazioni sindacali e la multinazionale tedesca, che prevedeva un regime di contratti di solidarietà fino a fine 2022, in attesa di produzioni in grado di garantire la piena occupazione.

Ora, dopo aver usufruito di tutti gli ammortizzatori sociali a settembre dello scorso anno, si sta andando avanti con i contratti di solidarietà che scadranno nel giugno 2020.

Sia durante l’incontro al Mise che in precedenti riunioni, l’azienda aveva illustrato alle parti sindacali i nuovi prodotti, come i componenti di motori elettrici per l’eBike o segmenti per la meccanica fine, che però non riescono a impiegare tutti i lavoratori attualmente occupati.

“A Bosch chiediamo di individuare una nuova missione produttiva per Bari che si affianchi a quella attuale incentrata sul diesel, poiché le lavorazioni portate negli ultimi anni non appaiono decisive per invertire la dinamica di declino. Al Governo invece chiediamo di passare dalle parole ai fatti, sviluppando una politica industriale nell’interesse nazionale. Atti concreti, come misure fiscali che non penalizzino la fornitura infragruppo, possono difatti aiutare a percorrere la strada della riconversione produttiva”. Affermano Gianluca Ficco, segretario nazionale Uilm, e Riccardo Falcetta, segretario della Uilm di Bari e coordinatore nazionale del gruppo al termine dell’incontro tenutosi al Ministero dello Sviluppo economico.

Durante l’incontro al Mise i rappresenanti della Regione Puglia si sono dichiarati disponibili a cofinanziare, insieme al governo, progetti di innovazione e riconversione delle linee produttive fino a 40 milioni di euro, per investimenti complessivi per 100 milioni di euro, ai quali si aggiungono i circa 2 milioni per la formazione del personale. Tutto questo ad una condizione: zero esuberi.

Per i due sindacalisti Uilm, bisogna “sostenere una progressiva riconversione industriale, con investimenti pubblici e privati, e impostare la discussione sul diesel su basi razionali, senza ingiustificate demonizzazioni, sono le due direttrici su cui muoversi per salvare il sito Bosch di Bari, nonché molte altre imprese italiane che versano nella medesima condizione”.

“Secondo le previsioni illustrateci oggi, si prevede – spiegano Ficco e Falcetta – un mercato dell’auto globale senza alcuna crescita fino al 2026 e si immagina nel 2030 una percentuale a livello globale di auto esclusivamente elettriche pari al 24%, con i restanti 36% di ibrido e 40% di motorizzazione tradizionale, a sua volta costituito per un quarto da diesel. Se si considera che l’UE sta correndo a marce forzate verso una elettrificazione ancor più rapida e che si continua a criminalizzare il diesel, a dispetto del fatto che le ultime tecnologie lo rendono sostanzialmente paragonabile al benzina o addirittura migliore relativamente alle emissioni di co2, si comprende facilmente che si sta preparando una tempesta perfetta per l’industria italiana, che da sempre rappresenta un’eccellenza in campo motoristico. Una corsa violenta verso l’elettrificazione sarebbe sinceramente comprensibile a due condizioni, che la spinta ecologista fosse condotta su basi razionali, ad esempio considerando i costi delle batterie e la necessità di costruire infrastrutture adeguate, e che fosse accompagnata da investimenti ingenti per sostenere la riconversione industriale. Purtroppo però accade il contrario e semplicemente stiamo rischiando di smantellare la nostra industria per favorire quella straniera”.

MAHLE
Il gruppo Mahle ha la sua sede a Stoccarda, Germania, ed è un’azienda della componentistica auto che ha 79mila dipendenti nel mondo. In Italia possiede due stabilimenti, uno a La Loggia (Torino) e l’altro a Saluzzo (Cuneo) dove lavorano 453 operai che producono pistoni diesel per Volkswagen, Audi, Volvo e Iveco. A fine ottobre, dopo un periodo di cassa integrazione, l’azienda ha comunicato ai lavoratori la cessata attività delle due fabbriche italiana a causa del calo del 30% degli ordini, e la delocalizzazione della produzione in Polionia.

Ai 453 lavoratori sono arrivate le lettere di licenziamento e non è la prima volta che il gruppo tedesco chiude stabilimenti italiani. È già accaduto nel 2008 a Potenza e a Volvera (Torino), con trasferimento dei dipendenti a Saluzzo e La Loggia, oltre a prepensionamenti ed esodi incentivati.

Dopo l’incontro al Mise, l’azienda ha deciso di sospendere per due mesi la procedura di licenziamento. Questo rappresenta solamente una tregua e una boccata d’ossigeno per arrivare ad una soluzione che garantisca i livelli occupazionali.

CRISI DEL DIESEL
Questi due casi sono solamente una parte delle gravi conseguenze avvenute dopo lo scoppio della crisi del diesel e le decisioni a livello europeo. Senza concreti progetti industriali alternativi di riconversione, attraverso l’impiego di investimenti pubblici e privati, si rischia di far scomparire un settore e una filiera importanti per l’Italia, nei quali lavorano quasi 200mila persone.

“La deindustrializzazione – concludono i sindacalisti – è purtroppo già iniziata, come tristemente dimostra il recente annuncio da parte di Mahle di voler chiudere due fabbriche proprio a causa della crisi del diesel, noi dobbiamo provare a fermarla prima che sia troppo tardi e la Bosch di Bari è un caso decisivo ed emblematico, poiché rappresenta la seconda azienda della Puglia dopo l’ex Ilva. A Bari non rischiamo solo i 600 potenziali esuberi di cui più volte si è parlato, ma a ben vedere la stessa sopravvivenza dello stabilimento in cui lavorarono oltre 1.800 persone”.

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